Torino Crime 2022

La violenza del linguaggio

By 25 Novembre 2022 No Comments

Tra le molteplici forme che la violenza può assumere nelle relazioni interpersonali, quella operata
attraverso il linguaggio assume un ruolo assai rilevante, per quanto sia sovente considerata una
questione secondaria, risibile. Soffermare l’attenzione su questo tipo di violenza consente allora
di rivelare la potenza del linguaggio nel determinare la qualità delle nostre relazioni e orientare le
pratiche discorsive a un uso più consapevole delle parole.

Interventi: Prof.ssa Maria Borrello, Università degli studi di Torino – Facoltà di Giurisprudenza; Ilda
Curti
, progettista sociale, esperta di innovazione; Carmen Leotta, psicologa e docente per il Ministero
della Giustizia
A cura di: Dott.ssa Erika Tortello

Le parole dell’odio
“Anche nell’odio le parole non sono tutto, ma l’odio ne ha bisogno perché in realtà le parole disegnano
mondi immaginari, hanno un significato e quindi l’odio si nutre di esse.
Dobbiamo stare attenti al fatto che minimizzando le parole di fatto minimizziamo il nutrimento di cui
l’odio si compone perché l’odio nutrito di significati e parole violente agisce con un meccanismo molto
noto, ovvero “la disumanizzazione dell’altro”. Nel momento in cui si usano parole denigranti o
offensive si toglie quell’elemento straordinario che è l’unicità e l’umanità dell’altro.”

Tullio De Mauro
Tullio De mauro, uno dei grandi intellettuali del 900’ Italiano ha partecipato alla commissione Jo Cox
(giovane deputata britannica che è stata uccisa nel 2015 per le sue posizioni nei confronti
dell’inclusione, dell’immigrazione).
Nel 2016 il Parlamento Italiano su suggerimento del Presidente della Camera, Boldrini, promosse una
Commissione che si occupa del discorso dell’odio e quali misure dovrebbero essere messe in atto per
contrastare le parole dell’odio: misure educative, politiche, sociali, normative.

De Mauro partecipando a questa Commissione scrisse un documento molto interessante: “Le parole
per ferire”, dove fece un’analisi delle tante modalità con cui si possono utilizzare le parole, che non
necessariamente sono di per sé offensive ma che potrebbero diventarlo in base al contesto in cui
vengono utilizzate; suggerendoci che sono sempre esistite in tutte le parole dell’odio, parole
offensive, insultanti o denigranti.
Grazie alla Commissione Jo Cox qualche anno fa (promosso anche da un’associazione di giornalisti)
nacque “Il manifesto delle parole ostili”, un’azione educativa molto forte nei confronti dei giovani e
degli insegnati sull’uso delle parole e soprattutto sull’educazione a limitare le parole nella
comunicazione con l’altro.
Le parole violente non sono nate con i social, basta pensare al periodo dell’olocausto, ma sono
un’amplificazione continua, costante e totale del linguaggio dell’odio.
Per Federico Faloppa, socio-linguista Torinese insegnante in Inghilterra, la differenza è che la
comunicazione via social consente di creare un’identità fittizia, per cui la relazione con l’altro non è
mediata dall’incontro, dal guardarsi in faccia e proprio questa assenza di mediazione rende possibile
ancora di più il non mettersi mai a confronto con l’altro. I social sono quindi un elemento su cui
riflettere perché amplificano e rendono più difficilmente cogente l’azione educativa.
Le parole dell’odio sono state uno straordinario prodotto dell’imprenditoria della paura, cioè la
discriminazione dell’altro, la disumanizzazione, l’utilizzo di parole continue sui corpi delle donne, sui
migranti, sulle diversità di genere, di orientamento sessuale; sono diventate uno straordinario
strumento di attivazione di consenso, quindi la politica ha una responsabilità enorme che non si può
pensare di declinare esclusivamente attraverso l’adozione di norme giuridiche che possano limitare
l’uso delle parole dell’odio.

L’influenza del linguaggio sulle sentenze
Parlare di violenza del linguaggio richiede sempre in qualche modo una forma di giustificazione
perché si ha spesso l’impressione che sia un aspetto residuale e che quindi fondamentalmente
l’attenzione sulla violenza deve esserci ma deve essere direzionata verso la vera violenza, ovvero
quella fisica: questa affermazione che generalmente più o meno tutti condividiamo è certamente
vera se focalizziamo la nostra attenzione sugli effetti immediati della violenza; diventa invece meno
vera quando proviamo ad approfondire un po’ di più sugli effetti della violenza e in questo senso ci
possiamo accorgere di come la violenza praticata attraverso le parole consuma i rapporti, erode gli
spazi di confronto e in realtà spesso crea le basi per la violenza fisica, quella violenza che viene poi
vista come un evento improvviso, inspiegabile e non prevedibile e che in realtà in tantissime occasioni
è invece il risultato di questo lento stratificarsi di piccole violenze, quelle che effettivamente
potremmo squalificare dalla nostra attenzione, perché sono appunto piccole violenze ma proprio per
il loro ripetersi conducono a disumanizzare l’altro e quindi sostanzialmente a renderlo irrilevante e
come tale possibile destinatario di quella violenza a cui riconosciamo il dovere della nostra
attenzione.
E basterebbe già solo questo aspetto della riflessione per fare si che alla violenza del linguaggio sia
riconosciuta la centralità che merita. In realtà c’è una ragione ancora più essenziale per cui appunto
occorre sorvegliare le parole che usiamo, sorvegliare il linguaggio e che rinviano propriamente alla
relazione che il linguaggio tiene con la realtà, perché come già detto da Ilda Curti noi con le parole
creiamo il mondo in cui abitiamo e creiamo anche le nostre identità attraverso le parole.

Pertanto proprio per questa capacità performativa, uno dei più importanti filosofi del linguaggio del
900’, John Austin, afferma che: “Ogni dire è anche un fare” e questo significa che noi diamo un senso
alla realtà. Quindi attenzionare il linguaggio ci consente di riappropriarci di questa capacità direttiva
del linguaggio e dunque anche scegliere in che direzione andare.
Di conseguenza, occuparsi della violenza del linguaggio significa nient’altro che prendersi cura della
nostra libertà in termini positivi e negativi ma anche libertà dai soprusi, dalla negazione della nostra
stessa esistenza. In questo senso appunto possiamo dire che il linguaggio impegna la costruzione del
mondo che abitiamo e ci impegna. Davanti alle sfide impegnative, però, tendiamo un po’ tutti a
sottrarci ed è forse anche per questa ragione che in realtà condividiamo una dimensione culturale
che ci fa incontrare tutti, cioè gli stereotipi o luoghi comuni che hanno una formidabile capacità,
ovvero sono immediatamente chiari quindi non richiedono nessuno sforzo di comprensione ma
identificano in modo nitido un pezzo di realtà. Tuttavia queste pratiche discorsive che noi tutti
condividiamo realizzano uno scondimento della realtà perché descrivono un pezzo di realtà a partire
da un’ipotesi possibile ma la fanno diventare l’unica forma possibile con cui ci stiamo confrontando
e in questo senso proprio perché appartengono al nostro patrimonio culturale e vengono veicolati
anche inconsciamente ritenendoli innocui, non ci rendiamo conto degli effetti violenti che essi
operano. Questi effetti violenti si manifestano in maniera eclatante quando poi quegli stessi luoghi
comuni che tutti noi utilizziamo ritenendole questioni poco rilevanti vengono utilizzati nei tribunali
(perché i giudici appartengono alla nostra stessa cultura) quindi quei medesimi stereotipi che noi
continuiamo a veicolare sono necessariamente introiettati anche nei soggetti giudicanti; ma quando
entrano in tribunale gli effetti diventano particolarmente gravi poiché determinano quella che in
termini tecnici viene definita come “ingiustizia epistemica” e cioè quelle sentenze realizzano una
forma di ingiustizia parte proprio dal modo stesso in cui ci rappresentiamo la realtà.
Per tali ragioni viene presentato uno dei molteplici esempi di queste interazioni tra stereotipi e
motivazione per le sentenze: sentenza che è stata data dalla Corte di Appello di Torino la quale
verteva su un caso di stupro per il quale l’imputato era stato condannato in primo grado e che invece
appunto con questa sentenza viene assolto in appello.
Episodio avvenuto in una sera in cui erano stati consumati alcolici: questa giovane donna che era in
compagnia di un amico ad un certo punto deve andare in bagno e si fa accompagnare dal ragazzo, ad
un certo punto chiede un fazzoletto per pulirsi e non chiude in quel momento la porta per cui lui
entra e la violenta, lei ovviamente reagisce e asserisce di aver urlato, lui interrompe bruscamente
l’atto e rimane accanto a lei. La donna, essendo molto scossa, chiama la zia per farsi venire a
recuperare va in ospedale e da lì si avvia tutto l’iter che nel caso di violenza deve essere percorso.
E’ la sentenza sui giornali apparsa riferendo come nella motivazione dei giudici si fosse affermato che
la vittima dello stupro aveva lasciato aperta la porta del bagno per cui questo aveva costituito un
chiaro invito ad entrare e che quindi l’approccio violento dell’uomo viene tutto sommato ricondotto
entro una dinamica comprensibile tra uomo e donna. Queste frasi di per sé non hanno senso:
assumono senso solo se le inseriamo entro uno specifico cliché che è propriamente quello tramite il
quale articoliamo la relazione uomo/donna ed è il cliché per il quale la donna non può manifestare
apertamente la sua disponibilità ad avere un rapporto sessuale quindi deve inviare dei segnali e
l’uomo chiaramente difronte a questi segnali non può che coglierli.
Infatti il giudice collegiale dice l’uomo ha accolto l’invito ad entrare, assumendo (senza nessuno
studio che lo dimostri) che gli uomini non possono assolutamente resistere al proprio impulso
sessuale per cui se una donna li invita necessariamente devono procedere in quella direzione. Quella

frase (“ha lasciato la porta aperta quindi lo aveva invitato ad entrare”) è evidente che si rifà a quella
specifica rappresentazione che tuttavia nella realtà non ha nessun riscontro oramai anche grazie a
tutte quelle conquiste verso la realizzazione della parità di genere, parità che non abbiamo ancora
raggiunto ma che sicuramente ha indicato un percorso e tante cose sono state raggiunte, tra queste
c’è sicuramente una maggiore consapevolezza delle proprie scelte nelle donne e quindi riportare la
relazione uomo/donna ad un “lo voglio e ti dico un no ma che in realtà vuol dire un sì” rimane assurdo,
lontano dalla realtà.
L’aspetto ancora più sorprendente nella costruzione di questa sentenza rinvia proprio alla premessa
dalla quale i giudici partono, poiché appunto nel dibattimento raccolgono svariate testimonianze tra
cui anche quella degli zii della vittima i quali avevano affermato che si trattasse di una persona gentile
e anche qui di nuovo i giudici affermano che dal momento che il ragazzo non l’ha abbandonata ma le
è rimasto accanto, non è pensabile che abbia commesso un atto di violenza; come se lo stupratore
non corrispondesse alla figura tipo che in effetti esiste nel nostro immaginario (stupratore come
disadattato sociale, emarginato o comunque una figura ai margini della società).
Se però confrontiamo questo cliché con i dati Istat del 2022 ci accorgiamo che il 76% delle violenze
sessuali è commesso da conoscenti e di questo 76%, il 63% (quindi la quasi integrità) è compiuta da
partner o ex partner; quindi in realtà nella maggior parte dei casi si tratta di persone che sono anche
capaci di atti gentili perché sono persone normali come il compagno, il vicino o l’amico e quindi il
pensare di dover giustificare una soluzione sulla base della non conformità al tipo ideale di stupratore
è evidentemente qualcosa che determina una fortissima ingiustizia.
Questa sentenza che è uno dei tantissimi esempi ci riporta, nella misura in cui riconosciamo che
questa soluzione perlomeno considerando la versione che è stata fornita, a qualcosa che non collide,
non esprime giustizia. Le motivazioni date dai giudici sono basate sostanzialmente sul principio che
tutto ciò che fa l’uomo è comprensibile e infine accettabile e tutto ciò che fa la donna invece è
controverso, è dubbio: ha detto che ha urlato ma nessuno l’ha sentita, parliamo di una serata in un
locale dove si presume non fossero gli unici due utenti con musica quindi anche urlando è difficile
che qualcuno possa sentire. Eppure viene messo in dubbio questo, viene messo in dubbio tutto ciò
che dice lei.
In altri termini qual è effetto di ingiustizia che realizzano gli stereotipi? Propriamente questo, cioè
fanno totalmente perdere di valore le affermazioni, la parola data da una certa categoria di soggetti
che socialmente consideriamo fragili e tutto questo non si può ignorare perché non esiste una forma
di violenza più netta di quella che ti impedisce di parlare o che quando te lo consente comunque non
tiene in alcun modo conto di ciò che dici.

Manifesto di Venezia
Le parole sono quindi sempre importanti, è fondamentale quindi che l’informazione sia sempre più
attenta all’uso delle espressioni. Ricordiamo per esempio il manifesto di Venezia in relazione alla
Convenzione di Istanbul del 2011 sulla violenza sulle donne e il femminicidio (convenzione che è poi
stata adottata dall’Italia pochi anni dopo).
Vediamo insieme un articolo in particolare di questo manifesto.
“Nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio occorre evitare:

  • espressione che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o
    svalutative dell’identità e della dignità femminili;
  • termini forvianti come amore, raptus, follia, gelosia, passione accostati a crimini dettati dalla
    volontà di possesso e annientamento;
  • l’uso di immagini e segni stereotipati che riducono la donna ad un mero richiamo sessuale o
    oggetto del desiderio;
  • suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida anche involontariamente motivando la
    violenza con perdita del lavoro, difficoltà economiche, depressione, tradimento e così via e
    quindi raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole partendo invece da
    chi subisce la violenza per rispetto della sua persona.
    Quante volte nei casi di femminicidio, siccome la vittima non ha più la possibilità di parlare se non
    attraverso un parente o i figli, il racconto viene fatto attraverso la figura dell’omicida e però
    questo racconto e quasi sempre ancora infarcito di condizioni che possono facilitare un
    comportamento non corretto ma che certamente non possono giustificare violenze di questo
    tipo.

C’è qualche cosa che la giurisprudenza potrebbe fare in più per evitare situazioni simili?
Rispetto all’attività positiva della giurisprudenza si segnala una Sentenza della Corte
Costituzionale ovvero quella dell’attribuzione del cognome: si tratta quindi di una questione che
si può considerare non così irrilevante, anzi è stata anche molto contestata.
Esiste però un aspetto di quella sentenza che è molto interessante: innanzitutto è una sentenza
che interviene su una materia che era da 40 anni oggetto di riaggiustamenti, quindi non è stato
un fulmine a ciel sereno ma anzi il Giudice Costituzionale ha proprio riorganizzato qualcosa che
necessitava di un intervento e lo ha fatto proprio a partire dal riconoscere come il fatto che
automaticamente i figli prendessero il cognome del padre in qualche riproduceva quella
concezione della famiglia, che la Corte fa risalire a prima del 1975 quando poi intervenne la
riforma del diritto di famiglia in cui l’uomo era considerato il capo famiglia ed era la figura rispetto
alla quale la donna era subalterna e cioè era lui che stabiliva dove collocare il domicilio e la donna
avrebbe dovuto seguirlo; quindi fino al 1975 questa era la modalità tramite la quale veniva
descritta la famiglia.
Interviene la riforma che riconosce pari dignità ai coniugi ma permane questa automaticità del
cognome del padre ed in effetti la corte dice “non è più corrispondente al dato di realtà”, perché
il nome ci identifica, è indubbio questo ma non possiamo escludere dalla nostra identità un pezzo
di essa e quindi la Corte dice “non si può escludere questa dimensione dalla propria identità e
quindi lascia ovviamente che la decisione sul cognome venga presa in accordo ma finalmente
procede riconoscendo un’uguaglianza di punti di partenza e cioè l’accordo non deve essere
contro la regola generale per cui si da il cognome del padre ma decisione insieme.
Erano stati diversi i casi di genitori che appunto procreavano un figlio avendo però già avuto altri
figli da relazioni precedenti quindi si poneva il problema di fratelli con cognomi diversi e quindi
come trattare questi casi. Far partire la scelta del cognome quindi non dall’automaticità del
patronimico ma dall’accordo dei coniugi serve a prendere le distanze da un cliché che non
corrisponde più alla nostra realtà e di nuovo la dimensione delle parole ci riporta alla dimensione
della libertà o meglio io madre posso partecipare alla scelta del cognome che andrà a mio figlio.
A questo serve analizzare il linguaggio, soffermarsi sul linguaggio che viene sempre molto
sottovalutato. La non mancata vigilanza sulle parole si piò tradurre in una non mancata vigilanza

sugli atti, perché a quelle parole spesso consegue un agire e quindi se noi facciamo attenzione
alle parole possiamo effettivamente anche arginare la violenza che poi si esplica fattualmente.

Perpetuare stereotipi o ironie può aver contribuito al mantenimento nel tempo comportamenti
e atteggiamenti negativi. Che cosa si può dire di quello che è capitato alla nostra pallavolista Paola
Egonu?

Il fatto che una campionessa della nostra nazione continui a dire che le si continui a chiedere se
è italiana è figlio del fatto che sono vent’anni almeno che in questo Paese aspettiamo la riforma
della legge sulla Cittadinanza. Questa è una questione che non avrebbe cambiato il pregiudizio di
per sé, non avrebbe eliminato lo stereotipo ma il fatto che la riforma della Cittadinanza non
preveda che chi nasce in Italia o chi studia in Italia non permetta di essere Italiano continua a far
sì che sia un’anomalia avere tratti somatici (per quanto questo voglia dire niente) diversi non
Italiani e quindi si perpetua il giudizio, il linguaggio dell’odio. Ormai sono passati vent’anni, adesso
noi abbiamo non solo la seconda generazione ma la terza perché ci sono figli dei figli dei migranti
che sono nati qui e continuano ad avere sul permesso di soggiorno “Data di ingresso in Italia” che
coincide con la loro data di nascita. Questo è il motivo per cui moltissimi atleti non riescono a fare
sport agonistico perché la maggior parte delle federazioni accetta solo sportivi con cittadinanza.
Continuiamo ad avere due milioni di giovani italiani senza cittadinanza.
Vi è un documento del Ministero dell’Istruzione uscito in Marzo 2022 “Nuovi orientamenti per
una didattica interculturale”, dove finalmente non si parla più di alunni e studenti stranieri ma si
parla di background migratorio (riferendosi al percorso familiare).

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