Articolo della Dott.ssa Magda Tresoldi
“Le professioni del Crimine”, ecco la tematica attorno a cui si è sviluppata la settima edizione del Torino Crime Festival, celebre evento dedicato alla criminologia e allo storytelling dei fenomeni criminali. Ancora una volta le splendide sale del palazzo Graneri della Roccia, sede del Circolo dei Lettori di Torino, hanno accolto esperti ed appassionati per quattro giorni di talk, interventi ed iniziative gratuite volte ad approfondire le diverse professioni che a più livelli intervengono nello studio, nella prevenzione e nel racconto del crimine.
Tra i numerosi ed interessanti interventi proposti, degno di nota è “Le donne nel crimine”, moderato da Carla Piro, con la preziosa partecipazione di Monica Cristina Gallo, garante delle persone private della libertà personale del Comune di Torino e Daniela Ronco, ricercatrice di sociologia giuridica, della devianza e del mutamento sociale presso l’Università degli studi di Torino.
Parlare di detenzione femminile significa parlare di una minoranza penitenziaria inserita in un contesto pensato e declinato per uomini. Descriverne sviluppo, numeri e tendenze significa pertanto fotografare una marginalità non solo quantitativa ma anche qualitativa, marginalità formata da molteplici sfaccettature che è fondamentale conoscere ed esplorare (Miravalle, 2018).
Le donne rappresentano circa il 4,2% dei detenuti in Italia, valore rimasto stabile negli anni, con piccoli oscillamenti che vanno da un massimo del 5,43% al 31.12.1992 ad un minimo del 3,83% al 31.12.1998 (Di Cecca, 2018). L’andamento della popolazione detenuta femminile ha da sempre seguito quello della popolazione detenuta generale.
Degni di nota sono tuttavia due elementi: la forte marginalità della popolazione ristretta femminile e l’andamento delle presenze di quest’ultima. Le donne inserite in contesto penitenziario sono statisticamente sottorappresentate poiché la popolazione ristretta è composta per la quasi totalità da uomini. Analizzando le presenze emerge però come i tassi di carcerazione tra donne e uomini siano perfettamente corrispondenti e direttamente proporzionali.
Considerando la questione della sottorappresentazione numerica delle donne detenute a livello europeo emerge come le donne rappresentino una piccola minoranza della popolazione detenuta, mai superiore al 10%; è tuttavia necessario prestare particolare cautela nella valutazione di tali dati poiché le politiche penali e penitenziarie risentono di specificità nazionali (Miravalle, 2018).
L’ Italia è, insieme alla Grecia, lo stato europeo con la più alta percentuale di donne detenute di origine straniera. Tale dato si aggira attorno al 40% (Miravalle, 2018). Le nazionalità più rappresentate sono: Romania (25%) e Nigeria (21%), seguite a grande distanza da Bosnia (5%), Marocco (4%), Brasile e Bulgaria (3%) (Di Cecca, 2018).
Dati interessanti sono quelli legati alla scolarità delle donne detenute: tra esse il 5,13 % è analfabeta, l’11,44 % è priva di titolo di studio, il 17,62 % ha la licenza elementare, il 36,18 % delle detenute possiede il diploma di scuola media inferiore, il 21,45 % quello di scuola media superiore o titoli di formazione professionale ed infine l’1,79 % è laureata.
La tipologia di reati perpetrati dalle donne è espressione manifesta della storia di marginalità sociale che spesso accompagna le loro vite. I reati maggiormente commessi sono quelli contro il patrimonio, la persona e in materia di stupefacenti, a seguire quelli contro la pubblica amministrazione, l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica ed infine, negli ultimi anni, associazione a delinquere di stampo mafioso (Di Cecca, 2018).
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Le donne spesso giungono in carcere per brevi ma ripetute permanenze. Un dato degno di nota è quello riportato dall’Assemblea parlamentare del Comitato per gli Affari Sociali, la Salute e la Famiglia del Consiglio d’Europa: il 70% delle donne in carcere in attesa di giudizio, non vengono in seguito condannate alla pena detentiva. Inoltre, la gran parte delle detenute condannate sconta un periodo di detenzione per lo più inferiore ai 3 anni (Astarita).
Uno dei maggiori problemi dell’Italia penitenziaria è innegabilmente il massivo impiego della custodia cautelare in carcere, questione che si inasprisce ulteriormente quando si parla di detenzione femminile poiché, come dimostrato dai dati, vi è una minor possibilità di accesso delle donne a forme di restrizione della libertà alternative al carcere (Miravalle, 2018). La disparità nell’utilizzo della custodia cautelare è ancora più evidente nel caso di detenute donne straniere: diverse ricerche dimostrano infatti come raramente risultino donne straniere sottoposte all’esecuzione di misure di sicurezza detentive alternative quali colonia agricola, casa di lavoro, casa di cura e custodia e simili. Ciò è principalmente legato alla difficoltà di ottenere documenti validi che consentano loro di accedere ai diritti stabiliti dalla legge e dall’ordinamento penitenziario (Di Cecca, 2018).
Purtroppo, la detenzione femminile viene solo in parte normata dall’ordinamento penitenziario il quale reca poche disposizioni in merito a quest’ultima. Nello specifico, la legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario si occupa di donne solo in quanto gestanti o madri (artt. 11 e 39), e prevede in modo generico l’ubicazione di donne detenute presso “istituti separati o in apposite sezioni di istituto” (art. 14).
Allo stato attuale gli istituti esclusivamente femminili sono cinque (Empoli, Pozzuoli, Roma “Rebibbia”, Trani, Venezia “Giudecca”), mentre nel resto d’Italia la loro detenzione è affidata a 52 reparti ricavati all’interno di istituti penitenziari maschili (Di Cecca, 2018).
La presenza di sezioni femminili garantisce il rispetto del principio di territorialità della pena, agevolando la vicinanza al contesto sociale di origine e permettendo il mantenimento dei contatti familiari; tuttavia, sono sezioni molto piccole e prive di adeguata attenzione da parte degli operatori e della società civile esterna (Miravalle, 2018).
Sebbene sia indubbio come negli istituti appositamente pensati le donne abbiano maggiori possibilità di condurre una vita detentiva declinata sui loro bisogni specifici, tuttavia anche queste strutture non sono scevre da criticità, ad esempio nell’istituto di Venezia è stata riscontrata una massiccia carenza di personale soprattutto educativo, la struttura di Pozzuoli versa in condizioni precarie e di sovraffollamento o, ancora, nell’istituto romano di Rebibbia mancano mediatori culturali
(Di Cecca, 2018).
La detenzione femminile rappresenta un universo a sé stante, uno spazio chiuso e sospeso con proprie caratteristiche, ben diverse da quelle che connotano la detenzione maschile.
All’interno degli istituti e delle sezioni femminili si instaurano legami autentici, le detenute riempiono il drammatico vuoto legato alla mancanza dei propri affetti attraverso piccoli gesti, espressione di tenerezza e di bisogno di vicinanza emotiva, complicità, contatto fisico e di punti di riferimento. Tali legami non vengono nascosti ma, al contrario, valorizzati.
Un’ulteriore differenza è rappresentata dalla cura per il proprio spazio personale e la propria persona, costante che soddisfa il profondo bisogno di intimità che accompagna le donne ristrette.
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Le camere di pernottamento sono ordinate e pulite, abbellite con oggetti personali nel tentativo di riprodurre un clima familiare e domestico. Anche i rumori in sezione sono diversi, più attenuati, ovattati, spesso è possibile sentire musica di sottofondo, voci e parole sussurrate. L’attenzione al proprio corpo e all’aspetto fisico è un’ulteriore costante che caratterizza la vita della donna in carcere, aspetto volto a sottolineare la propria femminilità al fine di ritrovare se stesse in un ambiente spersonalizzante.
Le donne ristrette vivono la detenzione con estrema sofferenza, distinta e maggiore rispetto alla controparte maschile, un malessere legato alla sola dimensione dell’essere donna: esse convivono quotidianamente con profondi sensi di colpa legati al distacco dai propri affetti, alla sensazione di aver abbandonato i propri figli, venendo meno al proprio ruolo centrale all’interno del nucleo familiare. Tale sofferenza, sentita in modo minore dall’uomo ristretto, è inevitabilmente legata al ruolo che la donna ha tipicamente assunto nella società quale responsabile dell’affettività familiare (Astarita).
Anche la relazione tra le detenute ed il personale assume connotazioni diverse nel mondo ristretto femminile, spesso sono rapporti basati sul dialogo e sulle confidenze.
In merito a quest’ultimo aspetto, necessaria è una riflessione legata al personale femminile di polizia penitenziaria, donne che si trovano a dover esercitare un ruolo storicamente pensato per uomini. Ne consegue come esse siano inevitabilmente portate a adeguarsi al ruolo a loro imposto facendolo proprio ed esercitandolo secondo modelli maschili, tuttavia, avendo a che fare con un universo unicamente femminile si trovano a dover impiegare modalità relazionali tipicamente femminili, difficilmente basate sulla contrapposizione di ruoli ma sulla comunicazione (Astarita).
È dunque indubbio come la detenzione femminile presenti criticità sotto molteplici aspetti. Una delle problematiche centrali maggiormente esperite dalle donne ristrette è la costrizione del corpo e la fissazione del tempo. Il carcere è un’istituzione che per sua natura cristallizza lo scorrere del tempo: nella reclusione esso è scandito, ciclico, ripetitivo, dilatato. All’esterno del carcere le donne vivono lo scorrere di quest’ultimo anche sul proprio corpo: le mestruazioni, la maternità, l’invecchiamento e la menopausa sono manifestazioni del passare degli anni che la donna accoglie ed accetta, seppur a volte con qualche difficoltà, ciò purtroppo difficilmente avviene per le donne ristrette. Il malessere legato al trascorrere del tempo si inasprisce diventando fondamentale per il benessere fisico e psichico, inserendosi nelle problematiche della salute della donna ristretta. Soprattutto nel primo periodo di detenzione, molte donne lamentano disturbi nel ciclo mestruale, manifestazione di come la reclusione, il senso di colpa e l’angoscia di separazione incidano sulla loro femminilità. Sovente lamentano disturbi di carattere psicosomatico per i quali purtroppo vi è una grande richiesta di farmaci e psicofarmaci; tra i disturbi maggiormente diffusi: cefalea, problematiche di respirazione, irritabilità, stipsi, anoressia, bulimia, gastriti, depressione, stati d’ansia e crisi d’angoscia (Astarita).
Ulteriore fonte di sofferenza è legata alla scarsa possibilità, soprattutto per le donne straniere, di ottenere alcune tipologie di documenti, impedendo loro di svolgere colloqui in presenza o telefonici con parenti e congiunti, questione che inevitabilmente aggrava la già delicata situazione vissuta comportando ricadute negative sulla qualità della vita detentiva e compromettendo l’accesso anche ai diritti umani più basilari.
Tale drammatica situazione è maggiormente accentuata nelle sezioni ricavate all’interno di istituti di detenzione maschile, realtà in cui i bisogni specifici delle donne sono spesso disattesi (Di Cecca, 2018).
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Parlare di detenzione femminile comporta inevitabilmente una riflessione sul diritto all’affettività della donna sottoposta a provvedimenti restrittivi della libertà personale (Amati, 2013). Sono oltre quarantamila, tra grandi e piccoli, i figli con un genitore dietro le sbarre, elevato anche il numero di figli con madre in carcere che vivono una situazione di privazione della figura materna. Inoltre, negli ultimi anni, nelle carceri italiane sono in media 50 i bambini che subiscono la condizione di privazione della libertà della madre-ristretta (Astarita).
La tematica è estremamente delicata, dalla difficile soluzione poiché molteplici sono le sfaccettature della questione: da una parte vi è la necessità di tutelare il diritto delle donne ristrette alla maternità e al continuare a svolgere la propria funzione genitoriale, dall’altra quello del minore a godere delle cure materne in un ambiente idoneo, senza dover trascorrere i primi anni di vita in un luogo insalubre come quello penitenziario (Fabini, 2016).
Come evidenziato dal rapporto dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa redatto nel giugno 2000 il carcere, indipendentemente dalla creazione di apposite sezioni, rimane un luogo incompatibile con le esigenze relazionali tra madre e minore: regole, tempi, ritmi detentivi creano inevitabilmente situazioni stressanti e tensioni che si ripercuotono sul corretto sviluppo psicofisico dei bambini e sulla diade madre-bambino (Amati, 2013).
Tra gli effetti patologici maggiormente evidenziati emergono irrequietezza, frequenti crisi di pianto difficoltà del sonno, inappetenza, significative variazioni di peso, graduale peggioramento dello sviluppo cognitivo e motorio ed infine danno emozionale e relazionale (Astarita).
Dal punto di vista legislativo, la legge italiana consente alle madri detenute che non possono usufruire di arresti domiciliari o differimento della pena, di tenere con sé i loro figli in carcere, fino all’età di tre anni; nello specifico, l’art. 19 del d.p.r. n. 230 del 2000“Assistenza particolare alle gestanti e alle madri con bambini. Asili nido” prevede, in particolare, specifiche forme di assistenza alle gestanti ed alle madri con bambini stabilendo:
1. Le gestanti e le madri con bambini sono assistite da specialisti in ostetricia e ginecologia, incaricati o professionisti esterni. Il parto deve essere preferibilmente effettuato in luogo esterno di cura. 2. È prestata, altresì, l’assistenza da parte di personale paramedico ostetrico. 3. L’assistenza sanitaria ai bambini che le madri detenute o internate tengono presso di sé è curata da professionisti specialisti in pediatria.
4. Gli specialisti in ostetricia e ginecologia e i pediatri, il personale paramedico, nonché gli operatori in puericultura degli asili nido sono compensati con onorari proporzionati alle singole prestazioni effettuate.
5. Presso gli istituti o sezioni dove sono ospitati gestanti e madri con bambini sono organizzati, di norma, appositi reparti ostetrici e asili nido. Le camere dove sono ospitati le gestanti e madri con i bambini non devono essere chiuse, affinché gli stessi possano spostarsi all’interno del reparto o della sezione, con il limite di non turbare l’ordinato svolgimento della vita nei medesimi.
6. Sono assicurati ai bambini all’interno degli istituti attività ricreative e formative proprie della loro età. I bambini, inoltre, con l’intervento dei servizi pubblici territoriali o del volontariato, sono accompagnati all’esterno con il consenso della madre, per lo svolgimento delle attività predette, anche presso gli asili nido esistenti sul territorio.
7. Quando i bambini debbono essere separati dalle madri detenute o internate, per avere superato il limite di età stabilito dalla legge o per altre ragioni, sentita in questo ultimo caso la madre, e non esistono persone a cui la madre possa affidare il figlio, la direzione dell’istituto, in tempo utile per le
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necessarie iniziative, segnala il caso agli enti per l’assistenza all’infanzia e al centro di servizio sociale, che assicura comunque il mantenimento di costanti rapporti tra la madre e il bambino (Amati, 2013).
Tuttavia, considerando gli effetti nocivi che la detenzione delle madri causa ai figli, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, riguardante “Madri e bambini in carcere”, mediante la raccomandazione n. 1469 del 2000 incoraggia gli Stati membri a ” sviluppare ed usare pene alternative al carcere per le donne con figli piccoli, di riconoscere che la detenzione di donne incinte o con figli piccoli dovrebbe essere usata soltanto come ultima risorsa per coloro le quali sono accusate di gravi reati e che rappresentano un pericolo per la comunità, di sviluppare delle linee-guida per i giudici affinché si attengano a tale invito” (Astarita).
Al fine di attenuare le innumerevoli conseguenze negative legate alla permanenza dei bambini negli istituti penitenziari, la legge n. 40/2001 per le “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”, pubblicata simbolicamente l’8 marzo 2001, prevede che le madri con prole di età inferiore ai dieci anni abbiano la possibilità di essere sottoposte a due tipologie di provvedimenti: detenzione speciale domiciliare che permette, a seguito dell’espiazione di un terzo della pena in carcere, di scontare il residuo di pena presso la propria abitazione o in altro luogo di cura, assistenza o accoglienza ed assistenza esterna dei figli minori (Astarita).
Per impedire un massivo impiego strategico della maternità in carcere, sono state individuate delle precise condizioni di ammissione alle misure alternative: l’accesso a tali benefici era garantito a detenute prive di rischio di recidiva, in grado di dimostrare la concreta possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Purtroppo, però, tali condizioni hanno inevitabilmente escluso donne appartenenti alle frange più marginali della popolazione, donne straniere e nomadi, detenute tossicodipendenti, la maggioranza delle detenute madri che difficilmente hanno un posto dove andare e pertanto rimangono escluse da tale possibilità (Fabini, 2016).
Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha affrontato il problema dei bambini in carcere grazie all’introduzione della legge n. 62, del 21 aprile 2011, la quale prevede la creazione di istituti a custodia attenuata (ICAM) dove collocare le detenute madri con i propri figli, nuovi modelli detentivi di tipo comunitario a misura di bambino, concepiti con l’obiettivo di creare una atmosfera familiare in modo da evitare ai minori i traumi della detenzione.
Tale modello propone sedi esterne agli istituti penitenziari dotati di sistemi di sicurezza ‘non invasivi’. Il primo ICAM è stato inaugurato a Milano nel dicembre 2006 ed è frutto di un accordo tra Ministero della Giustizia, Regione Lombardia, Provincia e Comune di Milano (Amati, 2013). Successivamente sono stati attivati quello di Venezia-Giudecca, Senorbì (in provincia di Cagliari), Lauro e Torino-Le
Vallette. In altri istituti, come Rebibbia a Roma, sono previsti solamente asili nido all’interno. Purtroppo, il loro numero, così come quello degli asili nido all’interno delle sezioni femminili, è ancora altamente insufficiente ad ospitare tutte le madri con figli minori secondo un’adeguata distribuzione territoriale (Fabini, 2016). Inoltre, se la creazione di tali strutture implica una maggiore tutela delle detenute madri adulte, lo stesso non è per le detenute madri minorenni, il cui accesso agli ICAM non è possibile nonostante nell’organizzazione degli Istituti penali minorili non esistano strutture paragonabili agli ICAM (Miravalle, 2018).
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Appare dunque innegabile come, in una sorta di circolarità infinita le donne ristrette, sovente provenienti da una pregressa vittimizzazione, siano nuovamente vittimizzate indirettamente da leggi inadeguate o politiche di assistenza sociale insufficienti, finendo per risultare ancora più costrette
all’interno dell’ambiente penitenziario (Romano, Ravagnani & Policek, 2017). In una realtà complessa dalle molteplici sfumature, fondamentale è la figura del garante dei detenuti, il cui obiettivo è garantire i diritti delle persone private della libertà personale, tutelando diritti che vanno oltre la privazione della libertà, poiché i cittadini rimangono cittadini anche all’interno dell’istituto penitenziario e tutti i loro diritti devono essere garantiti e mantenuti. Esplorare la componente femminile della popolazione ristretta, dalle donne detenute alle addette di polizia penitenziaria fino ad includere anche chi le carceri le dirige, significa immergersi in un mondo fatto di sofferenza ma anche di tanta voglia di riscatto, un universo piccolo e marginale, ma non per questo dimenticabile.
Bibliografia
Amati, E. (2013). Tempi di reclusione: il problema carcere e la detenzione femminile. Tempi di reclusione: il problema carcere e la detenzione femminile, 257-262.
Di Cecca, D. La detenzione femminile in Italia.
Fabini, G. (2016). Donne e carcere, quale genere di detenzione. Tredicesimo rapporto sulle condizioni di detenzione.
Miravalle, M. (2018). Quale genere di detenzione?: le donne in carcere in Italia e in Europa. Quale genere di detenzione?: le donne in carcere in Italia e in Europa, 29-58.
Romano, C. A., Ravagnani, L., & Policek, N. (2017). Percorsi di vittimizzazione e detenzione femminile. Rassegna italiana di criminologia, (2), 115-122.
http://www.ristretti.it/areestudio/territorio/antigone/rapporti/donne.htm