Torino Crime 2022

Donne ristrette: una storia di marginalità

By 6 Dicembre 2022 No Comments

Articolo della Dott.ssa Magda Tresoldi

“Le professioni del Crimine”, ecco la tematica attorno a cui si è sviluppata la settima edizione del  Torino Crime Festival, celebre evento dedicato alla criminologia e allo storytelling dei fenomeni  criminali. Ancora una volta le splendide sale del palazzo Graneri della Roccia, sede del Circolo dei  Lettori di Torino, hanno accolto esperti ed appassionati per quattro giorni di talk, interventi ed  iniziative gratuite volte ad approfondire le diverse professioni che a più livelli intervengono nello  studio, nella prevenzione e nel racconto del crimine. 

Tra i numerosi ed interessanti interventi proposti, degno di nota è “Le donne nel crimine”, moderato  da Carla Piro, con la preziosa partecipazione di Monica Cristina Gallo, garante delle persone private  della libertà personale del Comune di Torino e Daniela Ronco, ricercatrice di sociologia giuridica,  della devianza e del mutamento sociale presso l’Università degli studi di Torino. 

Parlare di detenzione femminile significa parlare di una minoranza penitenziaria inserita in un contesto  pensato e declinato per uomini. Descriverne sviluppo, numeri e tendenze significa pertanto fotografare  una marginalità non solo quantitativa ma anche qualitativa, marginalità formata da molteplici  sfaccettature che è fondamentale conoscere ed esplorare (Miravalle, 2018).  

Le donne rappresentano circa il 4,2% dei detenuti in Italia, valore rimasto stabile negli anni, con piccoli  oscillamenti che vanno da un massimo del 5,43% al 31.12.1992 ad un minimo del 3,83% al 31.12.1998 (Di Cecca, 2018). L’andamento della popolazione detenuta femminile ha da sempre seguito quello  della popolazione detenuta generale. 

Degni di nota sono tuttavia due elementi: la forte marginalità della popolazione ristretta femminile e  l’andamento delle presenze di quest’ultima. Le donne inserite in contesto penitenziario sono  statisticamente sottorappresentate poiché la popolazione ristretta è composta per la quasi totalità da  uomini. Analizzando le presenze emerge però come i tassi di carcerazione tra donne e uomini siano  perfettamente corrispondenti e direttamente proporzionali. 

Considerando la questione della sottorappresentazione numerica delle donne detenute a livello europeo  emerge come le donne rappresentino una piccola minoranza della popolazione detenuta, mai superiore  al 10%; è tuttavia necessario prestare particolare cautela nella valutazione di tali dati poiché le politiche  penali e penitenziarie risentono di specificità nazionali (Miravalle, 2018).  

L’ Italia è, insieme alla Grecia, lo stato europeo con la più alta percentuale di donne detenute di origine  straniera. Tale dato si aggira attorno al 40% (Miravalle, 2018). Le nazionalità più rappresentate sono:  Romania (25%) e Nigeria (21%), seguite a grande distanza da Bosnia (5%), Marocco (4%), Brasile e  Bulgaria (3%) (Di Cecca, 2018). 

Dati interessanti sono quelli legati alla scolarità delle donne detenute: tra esse il 5,13 % è analfabeta,  l’11,44 % è priva di titolo di studio, il 17,62 % ha la licenza elementare, il 36,18 % delle detenute  possiede il diploma di scuola media inferiore, il 21,45 % quello di scuola media superiore o titoli di  formazione professionale ed infine l’1,79 % è laureata. 

La tipologia di reati perpetrati dalle donne è espressione manifesta della storia di marginalità sociale  che spesso accompagna le loro vite. I reati maggiormente commessi sono quelli contro il patrimonio,  la persona e in materia di stupefacenti, a seguire quelli contro la pubblica amministrazione,  l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica ed infine, negli ultimi anni, associazione a  delinquere di stampo mafioso (Di Cecca, 2018).

Le donne spesso giungono in carcere per brevi ma ripetute permanenze. Un dato degno di nota è quello riportato dall’Assemblea parlamentare del Comitato per gli Affari Sociali, la Salute e la Famiglia del  Consiglio d’Europa: il 70% delle donne in carcere in attesa di giudizio, non vengono in seguito  condannate alla pena detentiva. Inoltre, la gran parte delle detenute condannate sconta un periodo di  detenzione per lo più inferiore ai 3 anni (Astarita). 

Uno dei maggiori problemi dell’Italia penitenziaria è innegabilmente il massivo impiego della custodia  cautelare in carcere, questione che si inasprisce ulteriormente quando si parla di detenzione femminile  poiché, come dimostrato dai dati, vi è una minor possibilità di accesso delle donne a forme di  restrizione della libertà alternative al carcere (Miravalle, 2018). La disparità nell’utilizzo della custodia  cautelare è ancora più evidente nel caso di detenute donne straniere: diverse ricerche dimostrano infatti  come raramente risultino donne straniere sottoposte all’esecuzione di misure di sicurezza detentive  alternative quali colonia agricola, casa di lavoro, casa di cura e custodia e simili. Ciò è principalmente  legato alla difficoltà di ottenere documenti validi che consentano loro di accedere ai diritti stabiliti  dalla legge e dall’ordinamento penitenziario (Di Cecca, 2018). 

Purtroppo, la detenzione femminile viene solo in parte normata dall’ordinamento penitenziario il quale  reca poche disposizioni in merito a quest’ultima. Nello specifico, la legge n. 354 del 1975  sull’ordinamento penitenziario si occupa di donne solo in quanto gestanti o madri (artt. 11 e 39), e  prevede in modo generico l’ubicazione di donne detenute presso “istituti separati o in apposite sezioni  di istituto” (art. 14). 

Allo stato attuale gli istituti esclusivamente femminili sono cinque (Empoli, Pozzuoli, Roma  “Rebibbia”, Trani, Venezia “Giudecca”), mentre nel resto d’Italia la loro detenzione è affidata a 52  reparti ricavati all’interno di istituti penitenziari maschili (Di Cecca, 2018). 

La presenza di sezioni femminili garantisce il rispetto del principio di territorialità della pena,  agevolando la vicinanza al contesto sociale di origine e permettendo il mantenimento dei contatti  familiari; tuttavia, sono sezioni molto piccole e prive di adeguata attenzione da parte degli operatori e  della società civile esterna (Miravalle, 2018).  

Sebbene sia indubbio come negli istituti appositamente pensati le donne abbiano maggiori possibilità  di condurre una vita detentiva declinata sui loro bisogni specifici, tuttavia anche queste strutture non  sono scevre da criticità, ad esempio nell’istituto di Venezia è stata riscontrata una massiccia carenza  di personale soprattutto educativo, la struttura di Pozzuoli versa in condizioni precarie e di  sovraffollamento o, ancora, nell’istituto romano di Rebibbia mancano mediatori culturali  

(Di Cecca, 2018). 

La detenzione femminile rappresenta un universo a sé stante, uno spazio chiuso e sospeso con proprie  caratteristiche, ben diverse da quelle che connotano la detenzione maschile.  

All’interno degli istituti e delle sezioni femminili si instaurano legami autentici, le detenute riempiono  il drammatico vuoto legato alla mancanza dei propri affetti attraverso piccoli gesti, espressione di  tenerezza e di bisogno di vicinanza emotiva, complicità, contatto fisico e di punti di riferimento. Tali  legami non vengono nascosti ma, al contrario, valorizzati. 

Un’ulteriore differenza è rappresentata dalla cura per il proprio spazio personale e la propria persona,  costante che soddisfa il profondo bisogno di intimità che accompagna le donne ristrette. 

Le camere di pernottamento sono ordinate e pulite, abbellite con oggetti personali nel tentativo di  riprodurre un clima familiare e domestico. Anche i rumori in sezione sono diversi, più attenuati,  ovattati, spesso è possibile sentire musica di sottofondo, voci e parole sussurrate. L’attenzione al proprio corpo e all’aspetto fisico è un’ulteriore costante che caratterizza la vita della  donna in carcere, aspetto volto a sottolineare la propria femminilità al fine di ritrovare se stesse in un  ambiente spersonalizzante. 

Le donne ristrette vivono la detenzione con estrema sofferenza, distinta e maggiore rispetto alla  controparte maschile, un malessere legato alla sola dimensione dell’essere donna: esse convivono  quotidianamente con profondi sensi di colpa legati al distacco dai propri affetti, alla sensazione di aver  abbandonato i propri figli, venendo meno al proprio ruolo centrale all’interno del nucleo familiare.  Tale sofferenza, sentita in modo minore dall’uomo ristretto, è inevitabilmente legata al ruolo che la  donna ha tipicamente assunto nella società quale responsabile dell’affettività familiare (Astarita). 

Anche la relazione tra le detenute ed il personale assume connotazioni diverse nel mondo ristretto femminile, spesso sono rapporti basati sul dialogo e sulle confidenze.  

In merito a quest’ultimo aspetto, necessaria è una riflessione legata al personale femminile di polizia  penitenziaria, donne che si trovano a dover esercitare un ruolo storicamente pensato per uomini. Ne  consegue come esse siano inevitabilmente portate a adeguarsi al ruolo a loro imposto facendolo proprio  ed esercitandolo secondo modelli maschili, tuttavia, avendo a che fare con un universo unicamente  femminile si trovano a dover impiegare modalità relazionali tipicamente femminili, difficilmente  basate sulla contrapposizione di ruoli ma sulla comunicazione (Astarita). 

È dunque indubbio come la detenzione femminile presenti criticità sotto molteplici aspetti.  Una delle problematiche centrali maggiormente esperite dalle donne ristrette è la costrizione del corpo  e la fissazione del tempo. Il carcere è un’istituzione che per sua natura cristallizza lo scorrere del tempo:  nella reclusione esso è scandito, ciclico, ripetitivo, dilatato. All’esterno del carcere le donne vivono lo  scorrere di quest’ultimo anche sul proprio corpo: le mestruazioni, la maternità, l’invecchiamento e la  menopausa sono manifestazioni del passare degli anni che la donna accoglie ed accetta, seppur a volte  con qualche difficoltà, ciò purtroppo difficilmente avviene per le donne ristrette. Il malessere legato al  trascorrere del tempo si inasprisce diventando fondamentale per il benessere fisico e psichico, inserendosi nelle problematiche della salute della donna ristretta. Soprattutto nel primo periodo di  detenzione, molte donne lamentano disturbi nel ciclo mestruale, manifestazione di come la reclusione,  il senso di colpa e l’angoscia di separazione incidano sulla loro femminilità. Sovente lamentano disturbi  di carattere psicosomatico per i quali purtroppo vi è una grande richiesta di farmaci e psicofarmaci; tra  i disturbi maggiormente diffusi: cefalea, problematiche di respirazione, irritabilità, stipsi, anoressia,  bulimia, gastriti, depressione, stati d’ansia e crisi d’angoscia (Astarita). 

Ulteriore fonte di sofferenza è legata alla scarsa possibilità, soprattutto per le donne straniere, di  ottenere alcune tipologie di documenti, impedendo loro di svolgere colloqui in presenza o telefonici  con parenti e congiunti, questione che inevitabilmente aggrava la già delicata situazione vissuta  comportando ricadute negative sulla qualità della vita detentiva e compromettendo l’accesso anche ai  diritti umani più basilari. 

Tale drammatica situazione è maggiormente accentuata nelle sezioni ricavate all’interno di istituti di  detenzione maschile, realtà in cui i bisogni specifici delle donne sono spesso disattesi (Di Cecca, 2018).

Parlare di detenzione femminile comporta inevitabilmente una riflessione sul diritto all’affettività della  donna sottoposta a provvedimenti restrittivi della libertà personale (Amati, 2013).  Sono oltre quarantamila, tra grandi e piccoli, i figli con un genitore dietro le sbarre, elevato anche il  numero di figli con madre in carcere che vivono una situazione di privazione della figura materna.  Inoltre, negli ultimi anni, nelle carceri italiane sono in media 50 i bambini che subiscono la condizione  di privazione della libertà della madre-ristretta (Astarita). 

La tematica è estremamente delicata, dalla difficile soluzione poiché molteplici sono le sfaccettature  della questione: da una parte vi è la necessità di tutelare il diritto delle donne ristrette alla maternità e  al continuare a svolgere la propria funzione genitoriale, dall’altra quello del minore a godere delle cure  materne in un ambiente idoneo, senza dover trascorrere i primi anni di vita in un luogo insalubre come  quello penitenziario (Fabini, 2016). 

Come evidenziato dal rapporto dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa redatto nel  giugno 2000 il carcere, indipendentemente dalla creazione di apposite sezioni, rimane un luogo  incompatibile con le esigenze relazionali tra madre e minore: regole, tempi, ritmi detentivi creano  inevitabilmente situazioni stressanti e tensioni che si ripercuotono sul corretto sviluppo psicofisico dei  bambini e sulla diade madre-bambino (Amati, 2013). 

Tra gli effetti patologici maggiormente evidenziati emergono irrequietezza, frequenti crisi di pianto  difficoltà del sonno, inappetenza, significative variazioni di peso, graduale peggioramento dello  sviluppo cognitivo e motorio ed infine danno emozionale e relazionale (Astarita). 

Dal punto di vista legislativo, la legge italiana consente alle madri detenute che non possono usufruire  di arresti domiciliari o differimento della pena, di tenere con sé i loro figli in carcere, fino all’età di tre  anni; nello specifico, l’art. 19 del d.p.r. n. 230 del 2000“Assistenza particolare alle gestanti e alle madri  con bambini. Asili nido” prevede, in particolare, specifiche forme di assistenza alle gestanti ed alle  madri con bambini stabilendo:  

1. Le gestanti e le madri con bambini sono assistite da specialisti in ostetricia e ginecologia, incaricati  o professionisti esterni. Il parto deve essere preferibilmente effettuato in luogo esterno di cura. 2. È prestata, altresì, l’assistenza da parte di personale paramedico ostetrico. 3. L’assistenza sanitaria ai bambini che le madri detenute o internate tengono presso di sé è curata  da professionisti specialisti in pediatria. 

4. Gli specialisti in ostetricia e ginecologia e i pediatri, il personale paramedico, nonché gli operatori  in puericultura degli asili nido sono compensati con onorari proporzionati alle singole prestazioni  effettuate. 

5. Presso gli istituti o sezioni dove sono ospitati gestanti e madri con bambini sono organizzati, di  norma, appositi reparti ostetrici e asili nido. Le camere dove sono ospitati le gestanti e madri con i  bambini non devono essere chiuse, affinché gli stessi possano spostarsi all’interno del reparto o della  sezione, con il limite di non turbare l’ordinato svolgimento della vita nei medesimi. 

6. Sono assicurati ai bambini all’interno degli istituti attività ricreative e formative proprie della loro  età. I bambini, inoltre, con l’intervento dei servizi pubblici territoriali o del volontariato, sono  accompagnati all’esterno con il consenso della madre, per lo svolgimento delle attività predette, anche  presso gli asili nido esistenti sul territorio. 

7. Quando i bambini debbono essere separati dalle madri detenute o internate, per avere superato il  limite di età stabilito dalla legge o per altre ragioni, sentita in questo ultimo caso la madre, e non  esistono persone a cui la madre possa affidare il figlio, la direzione dell’istituto, in tempo utile per le 

necessarie iniziative, segnala il caso agli enti per l’assistenza all’infanzia e al centro di servizio  sociale, che assicura comunque il mantenimento di costanti rapporti tra la madre e il bambino (Amati, 2013).  

Tuttavia, considerando gli effetti nocivi che la detenzione delle madri causa ai figli, l’Assemblea  parlamentare del Consiglio d’Europa, riguardante “Madri e bambini in carcere”, mediante la  raccomandazione n. 1469 del 2000 incoraggia gli Stati membri a ” sviluppare ed usare pene alternative  al carcere per le donne con figli piccoli, di riconoscere che la detenzione di donne incinte o con figli  piccoli dovrebbe essere usata soltanto come ultima risorsa per coloro le quali sono accusate di gravi  reati e che rappresentano un pericolo per la comunità, di sviluppare delle linee-guida per i giudici  affinché si attengano a tale invito” (Astarita). 

Al fine di attenuare le innumerevoli conseguenze negative legate alla permanenza dei bambini negli  istituti penitenziari, la legge n. 40/2001 per le “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto  tra detenute madri e figli minori”, pubblicata simbolicamente l’8 marzo 2001, prevede che le madri  con prole di età inferiore ai dieci anni abbiano la possibilità di essere sottoposte a due tipologie di  provvedimenti: detenzione speciale domiciliare che permette, a seguito dell’espiazione di un terzo della  pena in carcere, di scontare il residuo di pena presso la propria abitazione o in altro luogo di cura,  assistenza o accoglienza ed assistenza esterna dei figli minori (Astarita). 

Per impedire un massivo impiego strategico della maternità in carcere, sono state individuate delle  precise condizioni di ammissione alle misure alternative: l’accesso a tali benefici era garantito a  detenute prive di rischio di recidiva, in grado di dimostrare la concreta possibilità di ripristinare la  convivenza con i figli. Purtroppo, però, tali condizioni hanno inevitabilmente escluso donne  appartenenti alle frange più marginali della popolazione, donne straniere e nomadi, detenute  tossicodipendenti, la maggioranza delle detenute madri che difficilmente hanno un posto dove andare  e pertanto rimangono escluse da tale possibilità (Fabini, 2016). 

Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha affrontato il problema dei bambini in carcere  grazie all’introduzione della legge n. 62, del 21 aprile 2011, la quale prevede la creazione di istituti a  custodia attenuata (ICAM) dove collocare le detenute madri con i propri figli, nuovi modelli detentivi  di tipo comunitario a misura di bambino, concepiti con l’obiettivo di creare una atmosfera familiare in  modo da evitare ai minori i traumi della detenzione.  

Tale modello propone sedi esterne agli istituti penitenziari dotati di sistemi di sicurezza ‘non invasivi’. Il primo ICAM è stato inaugurato a Milano nel dicembre 2006 ed è frutto di un accordo tra Ministero  della Giustizia, Regione Lombardia, Provincia e Comune di Milano (Amati, 2013). Successivamente  sono stati attivati quello di Venezia-Giudecca, Senorbì (in provincia di Cagliari), Lauro e Torino-Le  

Vallette. In altri istituti, come Rebibbia a Roma, sono previsti solamente asili nido all’interno. Purtroppo, il loro numero, così come quello degli asili nido all’interno delle sezioni femminili, è ancora  altamente insufficiente ad ospitare tutte le madri con figli minori secondo un’adeguata distribuzione  territoriale (Fabini, 2016). Inoltre, se la creazione di tali strutture implica una maggiore tutela delle  detenute madri adulte, lo stesso non è per le detenute madri minorenni, il cui accesso agli ICAM non  è possibile nonostante nell’organizzazione degli Istituti penali minorili non esistano strutture  paragonabili agli ICAM (Miravalle, 2018). 

Appare dunque innegabile come, in una sorta di circolarità infinita le donne ristrette, sovente  provenienti da una pregressa vittimizzazione, siano nuovamente vittimizzate indirettamente da leggi  inadeguate o politiche di assistenza sociale insufficienti, finendo per risultare ancora più costrette 

all’interno dell’ambiente penitenziario (Romano, Ravagnani & Policek, 2017). In una realtà complessa dalle molteplici sfumature, fondamentale è la figura del garante dei detenuti,  il cui obiettivo è garantire i diritti delle persone private della libertà personale, tutelando diritti che  vanno oltre la privazione della libertà, poiché i cittadini rimangono cittadini anche all’interno  dell’istituto penitenziario e tutti i loro diritti devono essere garantiti e mantenuti.  Esplorare la componente femminile della popolazione ristretta, dalle donne detenute alle addette di  polizia penitenziaria fino ad includere anche chi le carceri le dirige, significa immergersi in un mondo  fatto di sofferenza ma anche di tanta voglia di riscatto, un universo piccolo e marginale, ma non per  questo dimenticabile. 

Bibliografia  

Amati, E. (2013). Tempi di reclusione: il problema carcere e la detenzione femminile. Tempi di  reclusione: il problema carcere e la detenzione femminile, 257-262.  

Di Cecca, D. La detenzione femminile in Italia. 

Fabini, G. (2016). Donne e carcere, quale genere di detenzione. Tredicesimo rapporto sulle condizioni  di detenzione.  

Miravalle, M. (2018). Quale genere di detenzione?: le donne in carcere in Italia e in Europa. Quale  genere di detenzione?: le donne in carcere in Italia e in Europa, 29-58.  

Romano, C. A., Ravagnani, L., & Policek, N. (2017). Percorsi di vittimizzazione e detenzione  femminile. Rassegna italiana di criminologia, (2), 115-122.  

http://www.ristretti.it/areestudio/territorio/antigone/rapporti/donne.htm

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