Articolo di
Avv. Maria Antonietta Federici
La violenza contro le donne costituisce una grave piaga che fa parte della nostra società dalla notte dei tempi, e che sembra affondare le proprie radici in motivi di ordine sociale e culturale.
Apprendiamo ormai con cadenza pressoché quotidiana di tristi episodi di cronaca nera che vedono come protagoniste donne di qualsiasi età, provenienza ed estrazione sociale.
Quel che colpisce maggiormente, lasciando sgomenti, è che nella maggior parte dei casi gli autori di questi crimini sono i loro compagni, amici, mariti, amanti od ex. Ed ancor più sovente sono proprio costoro, i quali dovrebbero proteggerle dalla violenza e dalla malvagità del mondo, a mettere la parola “fine” alla loro esistenza.
Si tratta di un fenomeno che, si ribadisce, purtroppo da sempre fa parte della storia del genere umano.
Tuttavia, sebbene negli ultimi anni se ne parli molto più che in precedenza, complice l’aumentata sensibilità verso questi episodi ed il grande risvolto mediatico che spesso queste storie hanno, secondo gli ultimi dati pubblicati dall’ISTAT si tratterebbe di un fenomeno in calo rispetto al passato, malgrado questo abbia ancora dimensioni preoccupanti.[1]
In particolare, secondo la fonte citata, «emergono importanti segnali di miglioramento rispetto all’indagine precedente: negli ultimi cinque anni le violenze fisiche o sessuali sono passate dal 13,3% all’11,3%, rispetto ai cinque anni precedenti al 2006. Ciò è frutto di una maggiore informazione, del lavoro sul campo ma soprattutto di una migliore capacità delle donne di prevenire e combattere il fenomeno in un clima sociale di maggiore condanna della violenza»; ed ancora che «alla maggiore capacità delle donne di uscire dalle relazioni violente o di prevenirle si affianca anche una maggiore consapevolezza. Più spesso considerano la violenza subita un reato (dal 14,3% al 29,6% per la violenza da partner) e la denunciano di più alle forze dell’ordine (dal 6,7% all’11,8%). Più spesso ne parlano con qualcuno (dal 67,8% al 75,9%) e cercano aiuto presso i servizi specializzati, centri antiviolenza, sportelli (dal 2,4 al 4,9%)».[2]
Dalla maggiore attenzione sembra quindi essere derivata una maggiore consapevolezza, elemento necessario al fine di uscire da quella situazione di isolamento e vergogna che frequentemente si riscontra nelle donne vittime di questi casi. È infatti comune tra costoro la tendenza ad isolarsi o, peggio ancora, a non percepire la gravità della situazione che si sta vivendo, tendendo a minimizzare, in primis con se stesse, l’entità della vessazione subita nella speranza che “non accada più”.
Tuttavia, purtroppo, così non è.
La realtà ci insegna tristemente come, di solito, i soggetti che si rendono rei di aggressioni ai danni delle loro compagne tendono, prima o poi, a perpetrarne di nuove.
Inoltre, la maggior parte degli omicidi giunge al culmine di anni di violenze, sia psicologiche che fisiche, o comunque come posterius rispetto ad un precedente episodio aggressivo.
Ove, poi, una donna si determini a porre fine ad una relazione sentimentale proprio in ragione dei comportamenti abnormi che ivi si sono manifestati, si riscontra con grande frequenza come l’episodio aggressivo giunga entro i primi 90 giorni dalla separazione.
Quelli che appaiono semplicemente come rapporti morbosi sovente celano infatti una grande sofferenza da parte di uno o di entrambi i partners.
Colpisce altresì la trasversalità di questi fenomeni, che tuttavia appare spiegata dal fatto che nell’incontro tra individui ciò che porta ad avvicinarsi, più che i fattori sociali, siano i vissuti comuni o, comunque, le affinità caratteriali.
Ove, in ragione di ciò, venga a crearsi una grande complicità, l’uno tende a diventare la dimora dell’altro. E tutto procede per il meglio finché questo equilibrio non viene a disgregarsi.
Ed è proprio in questo momento che il soggetto “debole”, incapace di reagire all’allontanamento del partner, pone in essere quelle condotte aberranti che nei casi peggiori sfociano nell’omicidio.
Ciò in quanto, sovente, a monte di tale reazione -che, si badi, nella maggior parte dei casi non cela dietro di sé alcuna patologia psichiatrica- vi è l’incapacità di elaborare un distacco, per le ragioni più disparate.
L’uomo (potenziale) autore di tali fatti spesso si presenta a propria volta come un individuo sofferente, incapace di riconoscere l’altro come entità distinta e di elaborare la possibilità che questo – nonché, de relato, sé stesso- possa continuare la propria esistenza nonostante la separazione.
Pare, inoltre, che vi sia un nesso tra l’avere assistito nel corso della vita ad una vittimizzazione, specie se questa è avvenuta nel corso dell’infanzia, e il successivo comportamento violento.
Questo, ovviamente, non vuole essere un tentativo di giustificare gli individui che commettono tali fatti, ma un incentivo per individuare le situazioni potenzialmente pericolose fin dagli albori delle stesse e sia ove fossimo noi stesse le potenziali vittime, sia laddove lo fossero delle nostre amiche o conoscenti, per indirizzare tanto la vittima quanto il potenziale carnefice verso un idoneo percorso di sostegno volto innanzitutto, ove già ci sia stato un precedente, a scongiurare il verificarsi di ulteriori e più gravi episodi di violenza.
Lasciando da parte i problemi che affliggono l’autore delle violenze, ci si vuole focalizzare su quanto sia spaventosa la situazione di coloro che si rendono conto di esserne vittime ma che, per le ragioni più varie, non riescono ad uscirne.
Si pensi a tutte quelle donne che dipendono economicamente da un marito violento, e che pensano di non avere altro luogo in cui rifugiarsi al di fuori di quelle mura in cui si perpetrano gli episodi di violenza o che, peggio ancora, per qualche ragione hanno perduto la fiducia nelle istituzioni.
Fortunatamente, come si diceva, negli ultimi anni è notevolmente aumentata la sensibilizzazione rispetto a questi fenomeni, e numerosi sono ormai sul territorio i centri specializzati a cui ci si può rivolgere già dai primi segnali di allarme: è tristemente noto come spesso, purtroppo, la richiesta di aiuto rivolta alle Forze dell’Ordine pervenga troppo tardi.
Il numero degli episodi omicidiari, sebbene in calo, rimane comunque molto elevato. Ed in ogni caso, se anche se si trattasse di un’unica donna per anno, si sarebbe difronte ad un fenomeno di enorme gravità.
Nel momento in cui queste donne prendono coscienza della loro situazione e la comunicano ad altri, il loro dolore e la loro paura diventano il dolore e la paura di chi si trova ad assisterle, a consigliarle, a dover valutare in un’ottica anche professionale situazioni che portano al proprio interno un carico emotivo tutt’altro che indifferente.
Ed inesorabilmente il loro dolore diventa il nostro dolore; la loro paura diventa la nostra.
In questi casi alle scelte professionali si devono necessariamente anteporre scelte umane, nella triste ottica di dover innanzitutto preservare la vita e l’integrità fisica e psicologica della persona assistita.
Concludendo, quindi, in questo giorno in cui si celebrano le donne si vuole ribadire la primaria importanza del riconoscere queste situazioni, andando oltre alle reticenze ed ai tentativi di dissimulazione che vengono posti in essere dalle vittime (pensiamo a tutte le volte in cui dei vistosi lividi vengono giustificati da traumi accidentali, da cadute, mentre in realtà altro non sono che la triste testimonianza di una violenza) e facendo percepire a costoro che non sono da sole ad affrontare questa situazione, spingendole a rivolgersi alle strutture specializzate al cui interno potranno incontrare persone qualificate ed in grado di aiutarle nella maniera ritenuta più idonea a seconda delle circostanze.
[1] Per un’ampia disamina in merito all’estensione del fenomeno si rinvia al sito internet www.istat.it, ed in particolare ai documenti “La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia”, pubblicato il 5 giugno 2015, e “La violenza contro le donne”, pubblicato il 23 dicembre 2016.
[2] www.istat.it, “La violenza contro le donne dentro e fuori la famiglia”, cit.